Di sana, personale Costituzione

Ai tempi d’oggi, pare proprio che un limite della Costituzione sia riconducibile a uno dei suoi più grandi pregi: il fatto di essere un’opera di civiltà edificata attorno al nucleo del valore della persona umana. Ciò causa il fraintendimento di chi, per tale via, crede di essere, lui, l’ombelico del mondo. Ed è così che tanti, in balia del proprio ego, riescono a vederci dentro ciò che vogliono, ciò che più soddisfa il loro solipsismo. E’ come se ciascun commensale, al cospetto di una succulenta insalata mista, prelevasse dall’insalatiera i pezzetti che più soddisfano il suo palato, lasciando agli altri i resti. Quello che rimane non è più l’espressione della sapiente sintesi culinaria creata dallo Chef. Fuor di metafora, la “sintesi culinaria” altro non è che la complessa amalgama di solidarietà, libertà e uguaglianza, che costituisce l’identità costituzionale da cui trae linfa la Repubblica, creata dai Padri Costituenti.

MIRABOLANTI LETTURE

Capita così che intellettuali, politici, giornalisti, comuni cittadini (per quanto ne possano sapere), pongano l’accento su singole enunciazioni della Carta costituzionale perdendo di vista il significato di valore sistematico della stessa. Ciò che, invece, contraddistingue l’attività dei giudici costituzionali imperniata, com’è, sulla valutazione comparativa e sul bilanciamento di interessi meritevoli di tutela, anche se tra loro contrastanti. Questo non deve stupire perché la stessa Costituzione è frutto di un compromesso, tra forze politiche e sociali, che non aderisce a una rigorosa logica unitaria. Basti pensare alla difficile composizione del mix ideale tra libertà e uguaglianza. L’estremo dell’una esclude l’altra e viceversa.

Si capisce che emergano delle difficoltà a inquadrare correttamente, sotto il profilo costituzionale, questioni che involgono la solidarietà e l’interesse collettivo (come l’obbligo vaccinale, secondo l’art. 32), o si manifesta la tendenza a rendere assoluti principi che non lo sono. Si guardi, ad esempio, alla fantasiosa interpretazione che taluni hanno dato dell’art. 11, con riferimento al “ripudio della guerra”, per mettere in discussione l’invio di armi all’Ucraina. Tali invii sono pienamente legittimi perché i relativi provvedimenti sono adottati nel rispetto della legge del 9 luglio del 1990, n. 185, sull’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento: questa stabilisce che la cessione di armi deve essere conforme alla politica estera e di difesa dell’Italia, oltre che alla Costituzione, che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

Del tutto impropria è sempre apparsa, d’altronde, l’invocazione di un pacifismo, quasi irenico, al quale sarebbe ispirata la Costituzione. Quello pacifista è in realtà un principio “affievolito”, nella misura in cui nessuna disposizione costituzionale vieta il ricorso alla guerra difensiva (artt. 52, 78 e 87), e non emerge neanche alcun rigido neutralismo come nel caso della Svizzera o del Giappone. Il nostro, più che pacifista, è un Paese pacifico.

ANTIDOTI ALLA MENTALITA’ ASSOLUTORIA

Questi sono i rischi che (mai come oggi) corrono le democrazie mature che hanno introiettato i diritti di libertà a tal punto da considerarli assoluti, e gratuitamente scolpiti nella pietra. Però, affinché la saldatura costituente tra cotanto privilegio storico e i suoi inavveduti destinatari continui a tenere, questi devono essere animati da passione civile e votati alla ragione. Ragione critica e, soprattutto, morale. Quella ragione che insegna a giustificare una scelta etica, a distinguere la legalità dall’illegalità, la giustizia dall’ingiustizia, a vedere le connessioni tra valori e tra fini e mezzi. La ragione che consente una corretta lettura dei fatti all’interno delle cornici interpretative che danno loro una collocazione. Riuscire a ragionare su questioni morali è forse l’imperativo più urgente.

Oltre alla dilagante piaga dell’analfabetismo funzionale, non è difficile rendersi conto delle proporzioni allarmanti raggiunte dall’analfabetismo morale che sconfina nel generale relativismo. Alcuni esempi di errori di ragionamento: “ma se lo fanno tutti, perché non dovrei farlo anch’io?”; “è un criminale, ma ha fatto anche del bene”; “è un politico corrotto, però è scaltro e simpatico”; “non sono omosessuale, perché devo preoccuparmi dell’omofobia?”; “fermiamo l’immigrazione perché gli stranieri ci rubano il lavoro”; “visto che il mondo è permeato di ingiustizie, a che serve il diritto?”, “ha subito violenza sessuale, ma in fondo se l’è cercata”. Tale modo di pensare tradisce l’evidente intento di giustificare comportamenti esecrabili, oltre che la violazione delle regole, in modo da poter essere trattati all’occorrenza con la stessa, infida, benevolenza. La mentalità assolutoria genera perversi effetti in tutti i gangli della vita sociale.

Se pensiamo alla passione civile, questa non può prescindere dall’l’amore per la libertà e la repulsione verso ogni forma di servitù e servilismo. Su tutto deve spiccare la vigile custodia della Costituzione contro ogni tentativo di stravolgerla per farne un mezzo di dominio e sopraffazione. Aspetto sul quale i Costituenti si soffermarono, facendole superare quel limite storico di mutevolezza contingente dello Statuto albertino.

IL CARATTERE DELL’ANTIFASCISMO

Che la Costituzione sia un fulgido responso antifascista è verità storica e logica che promana dai suoi principi fondamentali. Per chi, per incultura o inscalfibile fede missina, si mostra traballante sul percorso della nascita della Repubblica, e sull’apporto della Resistenza, la XII disposizione finale è lì a testimoniarlo. I valori e i riferimenti del totalitarismo fascista sono inconciliabili con quelli di una democrazia liberale. A partire dal principio dell’inviolabilità dei diritti dell’uomo (art. 2), che è la negazione in termini del fondamento della dottrina fascista. Le parole del ministro della giustizia del governo Mussolini, Alfredo Rocco, il quale reintrodusse la pena di morte che il Codice Zanardelli del 1889 (ispirato a idee liberali) aveva abolito, ne offrono una eloquente sintesi:

“… gli individui non sono che gli elementi infimi e passeggeri della società: essi nascono, crescono, muoiono, sono sostituiti da altri, mentre la società, attraverso i tempi, resta sempre identica a se stessa. L’individuo non può, perciò, secondo la concezione fascista, essere considerato come il fine della società, essendone solo il mezzo…”.

Capita poi, ancora oggi, che il termine “antifascista” sia improvvidamente interpretato come sinonimo di comunista, rievocando una contrapposizione politica mai sopita. Questo equivoco porta a ignorare la storia di molte delle vittime del periodo fascista e della Resistenza: Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, don Giovanni Minzoni, Giovanni Amendola, Carlo e Nello Rosselli, Duccio Galimberti, Teresio Olivelli, don Giuseppe Morosini, il generale Perotti, i martiri della certosa di Lucca, Giovanni Frignani e gli altri dodici carabinieri trucidati alle Ardeatine (e molti altri). Nessuno di loro era comunista. L’antifascismo non può essere prerogativa esclusiva di nessuno. Esso è (dovrebbe essere!) patrimonio comune della Repubblica. I caduti che si opposero e combatterono il fascismo appartengono a tutto l’arco costituzionale. Tutti hanno eguale diritto alla memoria.

Tale temperie culturale genera a volte una forma subdola di intolleranza, che, tracimata dall’alveo delle regole del vivere comune, sfocia in atteggiamenti o gesti di ispirazione fascista, posti in essere anche da chi, a parole, prende le distanze dal fascismo. Non esiste, infatti, nulla di più fascista dell’insolenza di considerare la violenza un fondamento d’ordine o di disordine, un’occorrenza storica o un sopruso inaccettabile a seconda del colore politico del violento. Lo sdegno, la sana ira guidata dalla ragione, dev’essere tale chiunque sia l’attore della violenza. Perché essa è la levatrice comune di ogni forma di totalitarismo, sia di destra, sia di sinistra.

Coloro che non conoscono la storia sono condannati a ripeterla.” (Churchill)

PATRIOTTISMO REPUBBLICANO

Oggi scontiamo gli effetti della sciagurata scelta della sinistra, che ha lasciato il patriottismo nelle mani della destra come per passare un petardo acceso. Ciò ha rafforzato la destra sulla base di una retorica nazionalista che ha sempre fatto presa sui più deboli, costituendo una risposta al loro bisogno di appartenenza e di protezione. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Destre che avanzano, grazie a un’opposizione che non sa contrastare il becero nazionalismo, in salsa sovranista e populista, parlando il linguaggio del patriottismo repubblicano.

I Padri Costituenti non erano in vena di facezie e provavano avversione per forme di esagerazione retorica, complice la cattiva retorica che il fascismo aveva profuso per vent’anni. Quando scelsero il termine “sacro” (art. 52), intendevano considerare il dovere di difendere la Patria come dovere sacro perché esige il sacrificio di sé. E’ questo il significato che traiamo leggendo quell’articolo oggi? E perché tale “sacralità”, nella difesa della Patria, non deve essere riconosciuta ai popoli di altre nazioni? Quella “Patria”, nella Costituzione repubblicana, fu motivata dal fatto che non si trattava più della patria fascista, ma si ispirava all’ideale del Mazzini.

Le due più importanti esperienze di emancipazione politica della storia italiana, il Risorgimento e la Resistenza antifascista, pur con i loro limiti, si sono contraddistinte, infatti, per l’idea che patria significa libertà comune di un popolo che vuole vivere libero tra popoli liberi. Piero Calamandrei, nell’aprile del 1940, annotava nel suo diario:

Gli inglesi e i francesi e i norvegesi che difendono la libertà, sono ora la mia patria.